#70CATANIA - Le pagine rossazzurre di Roberto Ricca: sesta puntata

Roberto Ricca, da calciatore a scrittore

Roberto Ricca, da calciatore a scrittore 

Sesto appuntamento con i racconti catanesi di Roberto Ricca, difensore rossazzurro nel biennio 1996-1998

Ciao Ale,
in un momento di grande incertezza per le sorti della squadra che ho nel cuore, non dimentico che ci fu un uomo che andò contro tutto e tutti per farne valere le ragioni. Quell'uomo che tu conosci bene, dapprima da solo, anzi con la città che gli andava contro, cominciò una guerra personale. Una volta che i tifosi si resero conto che amava veramente il rossazzurro si sono schierati insieme al loro generale e hanno vinto. Uniti si vince.
Un abbraccio caro


Le prime gare ufficiali della stagione sono i due incontri di Coppa Italia contro l’Atletico; non sono state due partite normali ma hanno significato molto di più. Ricordo benissimo che non appena messo piede a Catania ho percepito subito che qualcosa di strano bolliva in pentola. Sui muri campeggiavano scritte come “Solo Catania ’46” mentre altre inneggiavano a un fantomatico “Catania ‘93” e in altre ancora si leggeva “Atletico Catania aribattuti”. Mi è perfino capitato di esser stato insultato per strada; “Cominciamo bene” fu il mio pensiero in quella occasione. “Non abbiamo nemmeno iniziato a giocare e già mi adorano qui, chissà quanto durerò in quest’inferno” erano le mie riflessioni. A dir la verità non sapevo che in città dovevano convivere due squadre entrambe in categorie professionistiche. Pensavo che l’Atletico fosse la Leonzio che militando in serie C1 avesse chiesto ospitalità a Catania: le cose non stavano così.

Per spiegare come mai a distanza di tre anni due squadre cittadine si sfidavano per la Coppa Italia di serie C, bisogna fare un passo indietro fin alla calda estate del 1993. Appena un anno prima Angelo Massimino si era ripreso il suo Catania accettando di accollarsi debiti per 15 miliardi delle vecchie lire. Ai primi di agosto del ‘93, però le garanzie economiche all’iscrizione arrivarono con un giorno di ritardo e i vertici del pallone decisero che Catania doveva rimanere orfana della sua squadra. Forse fa sorridere questa cosa, basti pensare che società con un passato ben più illustre hanno evitato la cancellazione grazie a decreti legge inventati sul momento. Potenza dell’amicizia e di certe frequentazioni! Di tutte queste cose credo si debba ringraziare chi allora presiedeva la FIGC. Inoltre, chi allora era a capo dell’amministrazione comunale anziché dimostrare indignazione e palesare i pugni chiusi nei confronti della FIGC, si limitò a dire che avrebbe fatto di tutto affinché l’Atletico Leonzio si trasferisse armi e bagagli da Lentini nel capoluogo etneo. In questi casi di fronte all’ottusità delle istituzioni nel non voler farsi carico di quelle che sono le richieste dei cittadini comuni, il detto “Aiutati che Dio t’aiuta” calza a pennello.

Angelo Massimino, Presidentissimo rossazzurro 



Addirittura, in un primo momento i catanesi individuarono nel presidente Massimino il colpevole di questa incresciosa situazione arrivando perfino ad assediarlo dentro casa e lanciando bombe carte all’interno della sua villetta. Quella volta Angelo Massimino a differenza di altri personaggi (che riterranno in seguito Catania una piazza in cui è impossibile fare calcio) mostrò a tutta l’Italia di che pasta è fatto un vero presidente. Spalleggiato da una serie di legali con gli attributi al posto giusto, ingaggiò una vera e propria guerra contro il palazzaccio del calcio. In seguito gli s'affiancarono i tifosi e alcuni di loro arrivarono a incatenarsi sotto la sede della FIGC per far valere le ragioni di una città intera. Frattanto personaggi autorevoli di natali catanesi si nascondevano e pontificavano che la FIGC aveva fatto la cosa giusta. A distanza di anni i tribunali diedero ragione al cavaliere Massimino ma i danni d’immagine non furono mai risarciti.

Per tutti questi motivi le due partite di coppa non vennero vissute come prove generali per esser ben oliati al debutto in campionato, ma come due partite fondamentali della stagione. Ci preparammo scrupolosamente sul terreno del Cibalino (l’unico campo messo a disposizione della società) e disputammo qualche gara amichevole oltre le mura tra cui una partita contro l’Akragas. Il viaggio in pullman fu massacrante con la calura che superava i 40°, ma quella fu un’occasione unica per osservare da vicino la leggendaria valle dei templi. Prima del derby cittadino, a ricordarci dell’importanza della posta in palio ci pensavano i nostri tifosi, che ogni sera venivano a trovarci fuori dall’albergo di Acitrezza per suonarci la carica. Per l’occasione erano scesi giù pure i miei genitori; appena messo piede in Sicilia, mio padre s’innamorò subito dell’isola. Per lui ogni scusa era buona per assaggiare una granita diversa nei tanti bar di Acitrezza; mia madre era attratta e affascinata dai ristoranti che esponevano nel loro frigo pesce fresco da cucinare. Come tutte le mamme italiane, i cui figli son sempre bambini da proteggere, anche lei era preoccupata perché temeva che Catania fosse una piazza agitata.

Finalmente arrivò il 25 agosto, il giorno della partita d’andata di Coppa Italia programmata per le ore 20,45. Dopo una merenda di metà pomeriggio a base di crostata, succo di frutta, fette biscottate con miele e marmellata, prosciutto e grana, ci apprestammo a partire col pullman per raggiungere il Cibali. I miei genitori avevano prenotato un taxi, ma i dirigenti con una signorilità d’altri tempi fecero disdire la chiamata impegnandosi a far in modo che mamma e papà raggiungessero l’impianto a bordo di un’auto messa a disposizione della società. Ancor oggi, quando in famiglia parliamo di quel trasferimento da Acitrezza al Cibali, scoppio puntualmente a ridere. Il nostro pullman era scortato da una volante della polizia e dietro c’erano le auto dei dirigenti con a bordo i miei genitori. Una volta entrati in città, i poliziotti accesero le sirene e i lampeggianti, evitando così di fermarsi ai semafori. A mia madre si rizzarono i capelli e si spaventò a morte; non capiva cosa stesse accadendo e -come racconta mio padre- si era abbassata sotto i sedili per la paura di qualche sparatoria. Con uno spirito completamente diverso io stavo affrontando l’avvicinamento allo stadio. La “magia” di questo gioco è rappresentata dall’adrenalina che sale quando ci si avvicina alla partita. Una volta imboccato il vialone che porta a Piazza Spedini, vidi una fiumana di persone avvicinarsi a piedi verso l’impianto e un muro di tifosi fermi all’ingresso al campo. Erano i nostri meravigliosi sostenitori che ci gridavano, anzi ci imploravano, di mettercela tutta per sconfiggere gli “aribattuti”. A dir la verità l’Atletico era uno squadrone costruito per tentare la scalata alla serie B. La sua formazione per quella sera era la seguente: Squizzi, (che era stato mio compagno nella primavera della Juve e che in seguito giocherà per tanti anni in serie A), Anastasi, Farris (anch’egli reduce da diversi campionati tra serie A e B),Conca (tante stagioni in B), Cavataio (un guerriero della categoria), Favo (innumerevoli campionati tra A e B), Moro (altro mio compagno di squadra in bianconero),Di Serafino, Lerda (goleador anche nella massima serie), Musumeci, Protti (cugino del più famoso Igor e che in terza serie vantava diversi titoli come capocannoniere). Insomma l’Atletico avrebbe potuto tranquillamente dire la sua anche in B. Sulla carta, presi ad uno ad uno i giocatori, non c’era partita tra noi e loro: troppo forti erano le individualità atletiste. Noi però eravamo una squadra costruita per provare a vincere la C2 ed eravamo il Catania: dovevamo sputare fin all’ultima goccia di sangue e sudore prima di arrenderci.

Una formazione del Catania 1996/97 



Lasciati i borsoni negli spogliatoi, ci dirigemmo all’interno del rettangolo di gioco per visionare il terreno e decidere quali tacchetti utilizzare. Per quanto mi riguardava l’ispezione mi serviva a verificare se il manto presentava talune irregolarità. Quella dei tacchetti era una scelta obbligata per me; grande e grosso com’ero non potevo che adoperare le scarpe a sei, possibilmente con i tacchetti da 17 mm. Faccio parte di quella generazione che ancora distingueva i calciatori in base agli scarpini adoperati. I difensori e coloro i quali ritenevano che il calcio fosse una battaglia usavano calzature a sei, i giocatori tecnici e gli attaccanti preferivano “le tredici”. In più c’era un codice non scritto, secondo il quale i giocatori che portavano capelli lunghi, barbetta incolta e maglietta fuori dai pantaloncini erano i cosiddetti bastardi. Magari non eccellevano in qualità tecniche ma si facevano sentire, eccome; i giocatori dai piedi raffinati invece erano più curati nel look, indossavano le mitiche “Copa Mundial” ed erano più belli da vedere. Prima di rientrare negli spogliatoi mi concedo una visuale delle gradinate a 360° e penso in quale delle due curve si accomoderanno i nostri supporter. Stranamente, in quell’occasione il riscaldamento pre-partita ce lo fecero svolgere sul campetto del Cibalino; ugualmente potevamo però sentire cori e i tamburi che si stavano scaldando sugli spalti.

Dopo l’appello dell’arbitro Calabrese di Avezzano (che conoscevo per aver giocato nella squadra abruzzese) ci ritrovammo schierati all’imbocco del sottopassaggio. Dopo le solite strette di mano di rito e qualche sguardo in cagnesco all’avversario (che serviva a fargli capire che per lui sarebbe stata dura) salimmo lungo la scalinata che ci portò al campo, proprio sotto la Curva Sud. Appena entriamo in campo si scatena una bolgia dantesca e sotto i nostri occhi c’è una folgorante visione di fumogeni rossi e azzurri. Mentre raggiungo il cerchio di metà campo vedo solo due tinte sugli spalti; dentro di me penso che sia normale visto che entrambe le squadre hanno gli stessi colori sociali. Mi sbaglio: dalle curve è un tripudio solo per il vero Catania. Intravedo un solo striscione dell’Atletico confinato sotto la tribuna coperta. Di contro, la Curva Sud e la Nord esternano in maniera dialettale cosa pensano del proprietario dell’Atletico.

Si parte. Ogni volta che abbiamo palla noi si solleva un boato al Cielo, quando ce l’hanno gli avversari invece piovono fischi assordanti. Non è una partita dal livello qualitativo elevato ma un match molto combattuto. Loro sono forti e hanno sicuramente più doti tecniche ma noi, trascinati dal nostro pubblico, riusciamo a tener testa mettendoci l’anima. Purtroppo al 25’ l’equilibrio si spezza: una sfortunata autorete di Gennaro Grillo spiana la strada agli aribattuti. Accusiamo il colpo a livello psicologico, però non molliamo grazie agli stimoli che ci elargiscono i nostri ultras. All’intervallo siamo sotto di un gol ma consapevoli che ce la possiamo ancora giocare. Al rientro in campo la partita sembra mettersi per il verso giusto e al 52’ Tiziano D’Isidoro pareggia i conti: il Cibali esplode. Il gol lo segnammo sotto la curva Sud ed io, Cicchetti e altri corriamo festanti verso le vetrate. Dovrei ancora avere da qualche parte una foto in cui sono appeso ai vetri di protezione: si vedono molto bene le gambe a penzoloni e il numero 3 sulla schiena. Secondo me Tiziano D’Isidoro è uno degli attaccanti più forti con cui ho giocato. La sua qualità più grande è la coordinazione stilistica nel calciare in corsa: sotto porta è un cecchino infallibile. Tiziano riesce a mettere la palla nell’angolino senza mai rallentare l’andatura. Quando riuscivo a partire lungo l’out sinistro bastava trovare uno spiraglio e buttare la palla in mezzo, al resto ci pensava lui. Tiziano D’Isidoro è un grande bomber, ho legato tantissimo con lui. È un ragazzo simpaticissimo e professionista scrupoloso,ha una parlata abruzzese che mi fa morire dal ridere, soprattutto quando è arrabbiato. Sono stato diverse volte ospite a casa sua e della moglie Karina: due persone splendide. Arrivati a questo punto ne approfitto per salutarlo: «Ciao Tiziano sei sempre nel cuore».

Da questo momento in poi la partita cominciamo a farla noi rendendoci pericolosi in più occasioni. Però al 78° l’arbitro Calabrese fischia un rigore a favore dell’Atletico. Era uno di quegli interventi che è pane per i moviolisti, poteva starci ma poteva anche non essere fischiato. Lerda aveva accentuato il contatto e, con molto mestiere, era stramazzato a terra. Verso la fine dell’incontro mi sono reso protagonista di una galoppata “coast-to coast” dalla nostra area di rigore fin dentro quella avversaria dove Squizzi mi aveva anticipato d’un soffio. Ancora oggi mi sembra di sentire nelle orecchie le grida che s’alzavano a ogni metro che percorrevo. Quell’entusiasmo, quella carica che i tifosi sono in grado di sprigionare sono come scosse di adrenalina pura nelle mie vene. È una sensazione indimenticabile. Da allora i tifosi mi hanno affibbiato il nomignolo di “cavallo pazzo”. Mi dicevano che il mio modo di correre tutto sgangherato, coi capelli lunghi che andavano su e giù e la possanza fisica ricordava loro le movenze di un purosangue al galoppo. È un soprannome che ho portato sempre con grande orgoglio.
La partita finisce 2-1 per loro.

Negli spogliatoi io e alcuni compagni di squadra, incazzati per l’episodio del penalty, ci avviamo verso gli avversari per farci giustizia nei confronti di Franco Lerda colpevole di aver simulato. Finisce a parole grosse e qualche scarpa che vola dentro lo stanzone con la promessa che al ritorno ne avremmo viste delle belle.

LEGGI LE PUNTATE PRECEDENTI
Difensore rossazzurro nelle stagioni 1996-97 e 1997-98 in Serie C2

Prima puntata: Giugno e Luglio 1996
Seconda puntata: Carmelo Gennaro e Pasquale Marino
Terza puntata: Il ritiro precampionato, mister Busetta e gli amici Fimiani e Cicchetti
Quarta puntata: La famiglia Massimino
Quinta puntata: Gli allenamenti al "Cibalino", con Pippo Fleres e Gino Maltese

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