#70CATANIA - Le pagine rossazzurre di Roberto Ricca: quarta puntata

Roberto Ricca, da calciatore a scrittore

Roberto Ricca, da calciatore a scrittore 

Quarto appuntamento con i racconti catanesi di Roberto Ricca, difensore rossazzurro nel biennio 1996-1998

Ale, amico mio, rieccomi.
Come ti dicevo ieri al telefono, per me il calcio sarà sempre un gioco che parte dal cuore, dalle sensazioni che suscitano l'idea di correre dietro a un pallone. Io ho la mia teoria, grossolana naturalmente e lo dico per averla vissuta sulla mia pelle e non sui banchi di Coverciano. Io credo che Catania sia una piazza speciale e un calciatore che viene lì deve capire che mentalmente non può far calcio come se lo facesse a Cremona o Reggio Emilia. Deve capire che il catanese si sveglia al mattino e comincia a pensare alla squadra. Basterebbe che si facesse un giro in uno dei tanti mercati cittadini per vedere tutto drappeggiato di rossazzurro. Deve comprendere l'amore che i catanesi hanno per quei due colori che forse è anche assurdo ma è così. Soprattutto in Lega Pro un calciatore da Catania non deve avere qualità tecniche, bensì un cuore in modo da farsi trascinare da queste emozioni.

Torno ora ai fatti terribili del 2015. I catanesi sanno cadere in piedi come i gatti e avrebbero sicuramente digerito meglio un’eventuale retrocessione; certo magari si sarebbero incazzati ma almeno non sarebbero stati infangati da tutta l’Italia pallonara per quelle porcherie. Se penso alle vicende dei “Treni del gol” mi torna in mente una canzone scritta da Franco Califano e interpretata da Mia Martini, “Minuetto”. C’è un uomo che approfitta della passione di una donna; quell’uomo è il “capotreno” e i tifosi rappresentano quella donna che non può fare a meno dell’amore. Potranno passare anche 10 anni prima di rivedere il Catania almeno in serie B ma io tiferò sempre per questi colori. Nel frattempo, se, come sostiene, Pulvirenti ha fatto una cazzata enorme dovrebbe avere almeno il coraggio di andarsene per sempre dalla storia rossazzurra.


Il ritiro si conclude il 13 agosto con l’amichevole a Barcellona Pozzo di Gotto contro l’Igea Virtus. La calura è opprimente e il termometro segna 42°: negli spogliatoi non riusciamo proprio a stare. Spalanchiamo le porte e grazie al fatto che lo stanzone è nascosto alla vista altrui alcuni di noi si cambiano di fuori. Fu un pareggio scialbo, somma della stanchezza accumulata dalla permanenza in ritiro e dal desiderio di staccare la spina per qualche giorno. Al termine della gara finalmente si rientra a Catania e usufruiamo di tre giorni liberi. Io decido di rimanere in città e prendo possesso dell’appartamento che la società mi ha messo a disposizione. L’alloggio è situato al piano terra di una villetta di Acitrezza. La palazzina è la residenza estiva della famiglia Massimino. Quella sera quando arrivai c’erano la presidentessa e le famiglie delle sue tre figlie. Ero imbarazzatissimo ma ogni membro di quella straordinaria famiglia fu gentilissimo: sono persone di una educazione e signorilità di altri tempi.

In primis ricordo la presidentessa, la signora Grazia Codiglione. La presidentessa era una donna che dall’aspetto poteva sembrare una persona fragile, la classica nonna che vive per i suoi nipoti. Bastava però soffermarsi a guardarla negli occhi per capire molto di lei. Aveva un’espressione seria e il suo sguardo era sempre triste; sicuramente portava dentro di sé il dolore per la perdita dell’uomo cui aveva dedicato la vita. Credo che l’impegno che lei e le famiglie delle sue figlie hanno assunto nei confronti del Catania sia stato più che altro un atto d’amore per Angelo Massimino, un voler portare a termine il lavoro iniziato dal cavaliere quando nell’estate del ‘93 riprese una società sull’orlo della bancarotta ingaggiando una guerra contro i poteri forti e occulti della FIGC. Infatti una volta compiuta l’impresa di riportare la squadra in quella C1 (dove il palazzo del calcio aveva provato a farla sparire) si fecero da parte. Non deve trarre in inganno il fatto che la signora fosse di aspetto mite. Quando parlava alla squadra le bastavano poche parole, frutto non dell’esperienza calcistica nè di capacità imprenditoriali, ma dettate dal cuore per inchiodarci al muro a riflettere sulle nostre responsabilità. Pareva ci implorasse d’impregnare di sudore la maglia da gioco, onorando così l’uomo che aveva dedicato più tempo e passione ai colori rossazzurri che a lei e alla sua famiglia. Erano bordate che ti entrano dentro e non ti abbandonano più. A lei va tutto il mio rispetto e credo che il popolo rossazzurro le dovrebbe altrettanto.

Il rappresentante della famiglia Conti all’interno della società è il dottor Filippo, che di professione fa il medico. È una persona simpaticissima, segue costantemente la squadra ma la sua presenza non è mai invadente. Ha sempre la battuta pronta e una buona parola per qualsiasi giocatore. Quello che ho maggiormente apprezzato di lui è che trattava tutti i giocatori della rosa allo stesso modo, sia che interagisse con i “senatori” della squadra, sia con gli elementi più rappresentativi che con i comprimari, della cui cerchia io facevo parte. Avevamo una passione in comune: quella per gli orologi. A differenza mia, lui era però anche molto competente. Quando ci seguiva in trasferta o veniva a trovarci in albergo durante i ritiri pre-partita, mi faceva delle vere e proprie lezioni sulla storia dei marchi e sulle differenze tra un modello e l’altro. La moglie, la signora Silvana è una persona molto riservata. Di viso assomiglia tantissimo a sua madre. Non ho mai avuto modo di parlare molto con lei. Ci siamo sempre soffermati solo ai saluti quando ci incrociavamo. Angelo e Giorgio li ricordo bene. Erano piccoli ma simpaticissimi e scatenati; nel loro DNA c’erano sicuramente tracce di rossazzurro.

L’ingegner Pino Inzalaco è un po’ il deus ex machina della società. A lui spetta l’ingrato compito di tirar le somme di tutte le componenti che, incastrate tra di loro, tengono in piedi una società di calcio. All’inizio avevo un grande timore di lui; lo vedevo sempre vestito in maniera impeccabile in giacca e cravatta. Parlava poco ma bastava un suo saluto, uno sguardo per farmi mettere sull’attenti; col tempo ho imparato a conoscerlo e penso che sia una delle persone più buone e sensibili che abbia mai conosciuto. Preferiva lasciare alla squadra gli onori quando i risultati erano positivi, ma quando le cose non andavano per il verso giusto ecco che si presentava. Di fronte alla stampa e ai tifosi ha sempre difeso la squadra come se fossimo figli suoi, ma nel chiuso della sede dove ogni tanto ci riuniva si faceva sentire. E bene. Non gli ho mai sentito usare un’ espressione volgare, non urlava, guardava in faccia uno ad uno i giocatori e con molta calma esponeva le sue argomentazioni. Dopo averci fatto i giusti cazziatoni, il suo viso si rilassava e non ha mai fatto andare via un calciatore senza avergli dato una pacca sulla spalla e averlo incoraggiato. Però ogni qual volta mi squillava il cellulare e dall’altra parte c’era l’ingegnere che esordiva con un “Buonasera Ricca”, mi si gelava il sangue perché significavano guai in vista. All’epoca ero uno dei più giovani in rosa e appartenevo alla cerchia degli scapoli; ogni tanto giungevano ai dirigenti telefonate in cui i calciatori venivano additati per essere dei nottambuli, con tanto di locali frequentati. Per mia fortuna non fui mai o quasi mai coinvolto in queste situazioni. Per carattere non sono mai stato un amante dei locali notturni, non so ballare né cantare. Ho sempre preferito trascorrere le serate a leggere un libro piuttosto che a guardare la televisione. Ancora oggi e mia moglie lo potrebbe testimoniare, a casa se c’è una cosa che non è motivo di discussione, è proprio la scelta dei programmi televisivi da guardare; io guarderei solo partite di calcio e film in cui ci sono almeno 600 spari al minuto, lei non ama quel genere di film e tantomeno il calcio. Quindi per quieto vivere le cedo tranquillamente il telecomando e mi metto a leggere.

La moglie dell’ingegnere Inzalaco è una donna dalla forte personalità, la signora Annalisa Massimino. La sera che arrivai fu gentilissima e ospitale; mi fece vedere l’appartamento assegnatomi e si soffermò in cucina a tenermi una lezione su pentole e padelle che potevano servirmi. «Questa per fare la pasta, quella per il sugo, quest’altra per la carne e mi raccomando se le serve qualcosa chieda pure». Mi dava del lei la signora Annalisa e io ero imbarazzato. Continuavo ad annuire con la testa ma le sue parole per me erano arabo. Devo ammettere che l’unica cosa commestibile che sono in grado di cucinare è la pasta, possibilmente in bianco con olio e parmigiano e forse l’uovo all’occhio di bue. Tra i fornelli altro non so combinare e non ci tengo a imparare, anche perché poi bisogna lavare piatti e pentole e per natura preferirei fare dieci volte i mille metri piuttosto che dedicarmi alle faccende domestiche. La signora Annalisa mi saluta e prima di uscire si volta ancora una volta verso di me. Dal suo sguardo mi rendo conto che ha capito che io e la cucina stiamo agli antipodi. È una donna che non si fa ingannare da nessuno. Però come la presidentessa, aveva un modo di guardare noi giocatori che voleva significare: vi voglio bene, giocate per mio padre.

Il componente della grande famiglia Massimino con il quale ho legato maggiormente in quel periodo a tinte rossazzurre è Gigi Inzalaco, che in viso assomiglia tantissimo all’ingegnere, suo padre. Ha qualche anno in meno di me, è simpaticissimo e anche un buon esperto di calcio. Se con Francesco Conti ho passato diverse serate a casa mia, col tempo le visite di Gigi sono diventate tappe settimanali. C’era un gioco a carte che ci appassionava e trascorrevamo ore a giocare insieme. Ottimo fumatore come il sottoscritto, eravamo costretti a tenere aperta la porta che dava sul balconcino anche in inverno per non rischiare di affumicarci. Spesso si fermava a cena e il copione era sempre lo stesso. «Gigi ti fermi a cena? » Lui guardava il lavello e vedeva le pentole accatastate da lavare. In effetti, contravvenendo alle indicazioni della signora Annalisa, utilizzavo qualsiasi tipo di pentola per cucinare, finchè la batteria non era finita e ahimè dovevo cominciare a lavarle. Potevano trascorrere anche due o tre giorni prima che mi mettessi a farlo. Che schifo!!! «Va bè, - faceva a quel punto - che pizza vuoi che ce le facciamo portare ?».
Grandissimo Gigi: siamo ancora in stretto contatto. Una volta una coppia di sue amiche accettano di prendere un caffè da noi: quello fu uno dei momenti più imbarazzanti per me. Entrano, si accomodano in cucina dove Gigi sta smazzando le carte. Mentre preparo il caffè, si accorgono delle pentole accatastate nel lavello. «Cosa avete mangiato di buono?» domandano. Tutto tranquillo, Gigi risponde: «Abbiamo ordinato le pizze». E una di loro, di rimando: «E quelle pentole ?» Io fui preso dal panico, per fortuna Gigi spiegò la mia ”tattica” in fatto di pentole e fornelli. Dal loro sguardo capii che avrebbe preferito non accettare più un invito per il caffè. Le due amiche lo bevvero rapidamente e scapparono via all’istante. Non mi sono mai sentito così mortificato nemmeno quando Ciccio Famoso mi prendeva a quattr’occhi per dirmi che dovevo “arrusbigghiarmi”.

La famiglia Russo è quella a cui sono affettivamente più legato e in questo istante, mi pare proprio di rivederli tutti. Il professor Luigi, all’epoca primario di Ortopedia all’ospedale Vittorio Emanuele, la signora Santina professoressa di filosofia, Angelo, Alessandro e Adriano. Il professor Luigi è una persona splendida e ha sempre il sorriso sulle labbra. Non so spiegarmi il motivo ma è l’unico componente dei Massimino che non mi mette in soggezione. Probabilmente il suo lavoro lo porta ad essere affabile con le persone. Ho trascorso diverse sere d’estate a chiacchierare insieme a lui ai bordi della piscina del residence. Non mi stancavo mai di sentirlo parlare: si discuteva di tutto. Il suo patrimonio culturale era immenso; rimanevo incantato a sentirlo parlare dei luoghi di Sicilia, del cibo, della struttura del corpo umano, dei letterati di cui la Sicilia può vantare un gran numero di esponenti. Una volta mi tese un tranello: avevo subito una forte contusione. «Ricca, - mi disse - per qualche giorno le consiglio di fare della crioterapia». Lo guardo un po’ perplesso. «Si spieghi meglio Prof» gli dico dubbioso. «Ma come, ha fatto il liceo classico e non ricorda cosa significa la parola crio?». Rifletto un attimo e poi rispondo: «Ghiaccio». «Appunto, – riprende - per un paio di giorni faccia del ghiaccio e vedrà che tornerà tutto a posto». Il ricordo che ho della signora Santina è di una persona sempre gentile e sorridente. La vedevo più che altro durante il periodo estivo, quando si trasferiva con la famiglia ad Acitrezza. Talvolta rientravo dall’allenamento strisciando i piedi. La signora era immersa nella lettura di qualche libro in giardino. Interrompeva la lettura, si informava se gli allenamenti erano stati duri, se stavo bene, se mi servisse qualcosa. Una vera mamma.

Angelo è l’erede designato dal Cavaliere a dare continuità al legame tra i Massimino e la squadra del Catania. Di professione è ingegnere. Questo non significa che non sappia di calcio, anzi ha frequentato l’università più importante stando a stretto contatto con suo nonno, dal quale ha carpito tutti i segreti di questo meraviglioso e meschino mondo del calcio. Ragazzo giovane ma molto serio e posato ha sempre preferito essere piuttosto che apparire. Sempre in prima linea a condividere con la squadra gioie e dolori. Aveva grande personalità e un coraggio da leone, era il primo a metterci la faccia ogni volta che si verificavano episodi turbolenti. Sicuramente è l’alter ego del nonno, forse con un pizzico di diplomazia in più. Io credo che se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto tranquillamente continuare a fare il dirigente di calcio. Conosceva le dinamiche del campo e aveva ottime qualità manageriali, ma una volta raggiunto l’obbiettivo che si era posto ha preferito tornare al lavoro per cui aveva studiato. Ricordo che una volta mentre si chiacchierava si lamentò del fatto che il calcio gli portava via troppo tempo e non aveva la possibilità di svolgere il suo lavoro di ingegnere come avrebbe voluto. Che io sappia, è uscito dal mondo pallonaro. Del resto era troppo serio e perbene per vivere nell’universo calcistico, dove devi innanzitutto essere un figlio di buona donna.
Adriano è una vera e propria enciclopedia vivente del calcio. All’epoca lo mettevo alla prova facendogli domande su qualsiasi calciatore: non sono mai riuscito a coglierlo impreparato. Ora è un uomo e ogni tanto ci sentiamo tramite FB.
Alessandro è uno dei miei migliori amici. Appena lo conobbi entrammo subito in sintonia. Forse lui non lo ricorda ma all’epoca fece un gesto nei miei confronti che non dimenticherò mai. In quei tre giorni di riposo stavo cominciando ad ambientarmi ad Acitrezza. Avevo individuato il negozio di alimentari dove fare la spesa, avevo organizzato la casa ma ero ancora senza macchina. Mi muovevo a piedi e quindi il raggio di azione era assai limitato. Un giorno sul far della sera rientro a casa dopo aver fatto un prolungato bagno al mare e trovo Alessandro in piscina. Scambiamo due chiacchere, lo saluto e rientro in casa. Poco dopo suonano alla porta. È Alessandro che mi dice: «Roberto ho notato che sei senza auto. Questa sera ad Acireale c’è Ron in concerto. Io sarò in compagnia di un pugno d’amici e, se ti fa piacere, puoi unirti a noi ». Fu una serata piacevolissima. Dopo il concerto in piazza Duomo andammo a mangiare una granita. Alessandro è una persona dai valori forti. Sensibile e attento a chi gli sta vicino. Dietro questa maschera si cela un vero samurai. È un ottimo ortopedico e a mio parere un grande scrittore. Dopo tanti anni l’amore per il Catania ci ha fatto ritrovare. Voglio con tutto me stesso che non ci si perda più di vista. È “colpa” sua se mi sono lasciato trascinare in questo immenso mare di ricordi catanesi.

CONTINUA...

ROBERTO RICCA
Nato a Novara il 24 gennaio 1973
Difensore rossazzurro nelle stagioni 1996-97 e 1997-98 in Serie C2, per un totale di 62 presenze e 4 reti.