#70CATANIA - Le pagine rossazzurre di Roberto Ricca: terza puntata

Roberto Ricca

Roberto Ricca 

Terzo appuntamento con i racconti catanesi di Roberto Ricca, difensore rossazzurro nel biennio 1996-1998

Ciao caro Ale.
Scusa se ti scrivo a tozzi e bocconi: un po’ ti parlo del presente e un po’ riporto aneddoti di più di vent’anni fa. Ho visto che l'amichevole coi cinesi che si doveva disputare al Massimino si è giocata a Torre del Grifo e a porte chiuse. Perché? C'è stata una spiegazione? Nelle ultime pagine del bellissimo volume “Tutto il Catania minuto per minuto” nella presentazione del centro sportivo tale Nino Pulvirenti al taglio del nastro dichiarava che quella era la casa del Catania, del settore giovanile e della gente. Ma allora perché mai chiudi la porta in faccia alle uniche persone degne? Contestazioni o giubilo, i tifosi sono il motore di quella società: ma che fa iddu si dimentica di loro? Occhio, signor capotreno che "noi catanesi" non dimentichiamo.
Ai nostri tempi ci allenavamo al “Cibalino” o a “Monte Po’“ e in quei luoghi si faceva l'allenamento con l'elmetto in testa. Ogni giorno eravamo circondati dal calore e dalla rabbia dei tifosi e tu ne sei testimone diretto. Però nessuno di noi è morto per questo, anzi ci tempravamo anche agli umori della gente e la domenica sia in casa che in trasferta si lottava su ogni pallone. Oggi nei giocatori vedo solo tatuaggi e scarpini colorati, non c'è più sentimento. Quindi possono stare settimane intere a disquisire sul perché è percome la squadra fatica in casa o in trasferta ma per me i motivi sono soprattutto quelli a livello mentale. Credo che, come tifo, Catania sia rimasta l'ultima roccaforte di un calcio romantico non intaccato dal business. Può darsi che mi sbaglio, ma “Torre del Grifo” mi somiglia più a un investimento immobiliare, che a una struttura creata per essere la casa della società. È fuori mano e difficilmente i tifosi possono farsi sentire come quando io vestivo il rossazzurro.
Ora ritorno agli splendidi ricordi vissuti a Catania.


La partenza per il ritiro è fissata per il pomeriggio del giorno successivo. Decido quindi di approfittare del tempo libero per fare un tuffo in mare. Appena uscito dall’albergo vedo una vetrina con un’insegna rossazzurra. È la sede dei Freebooters, uno dei gruppi di tifosi organizzati del Catania. «Vuoi vedere, - dico tra me e me - che le parole di Gianfranco Grasso erano sincere?». Scendo poi verso il mare e il panorama che mi si presenta davanti è mozzafiato. Vedo i faraglioni ergersi in mezzo a un mare cristallino baciato dal sole e mi domando se questo è il Paradiso terrestre. Scendo nella caletta di scogli stando ben attento a dove metto i piedi, mi spoglio ed entro in acqua. Dopo poche bracciate la stanchezza e la tensione accumulate si dissolvono. Esco dall’acqua, mi arrampico su uno scoglio e mi crogiolo al sole fin quando sono asciutto. Non ho nessuna intenzione di ustionarmi anche perché il giorno dopo si comincia a sudare e non posso permettermi di presentarmi al raduno già cotto. Rientro quindi in albergo, mi faccio una doccia e poi mi stendo sul letto a riposare e riflettere sulla stagione calcistica che deve cominciare. Dopo cena faccio due passi per il paese e mi fermo all’Eden bar, dove mangio la mia prima granita siciliana.
Ecco arrivato il grande giorno: finalmente comincia la stagione sportiva. L’appuntamento è fissato davanti alla sede del club. È il primo pomeriggio, io sono in macchina con Pasquale. Una parte della squadra si troverà direttamente a Melia di Scilla, una località della Calabria arroccata proprio sopra Scilla. Giunti a Messina ci imbarchiamo con il traghetto. Parcheggiata l’auto saliamo sul ponte; mi appoggio alla balaustra e guardo la Sicilia che sto per lasciare e la sponda calabra che significa tornare sul continente.
Ogni volta che ci si appresta ad affrontare un viaggio si lascia un posto per raggiungerne un altro. Talvolta non vedi l’ora di andartene, altre volte ci lasci un pezzo di cuore.

Mi volto verso la Sicilia; anche se è passato un solo giorno dal mio arrivo mi prende un groppo alla gola all’idea di lasciarla. Ma non c’è tempo per le emozioni, bisogna raggiungere Melia e mettersi al lavoro. C’è una stagione importante da preparare. La località prescelta per la preparazione si trova su un cucuzzolo sopra il bellissimo mare di Scilla. È fornita di albergo, campo di calcio, spogliatoi e piscina scoperta, poi non c’è più nulla nell’arco di diversi chilometri. Ricordo che dopo cena ci toccava compilare una lista di quello che ci serviva; la consegnavamo al personale dell’albergo e la mattina seguente qualcuno di loro scendeva in paese e ci procurava ciò che desideravamo. Le richieste più gettonate erano i quotidiani sportivi e i prodotti per la doccia; io ordinavo le sigarette (brutto vizio lo so, da sportivo dovrei vergognarmene, ma almeno un vizio nella vita bisogna concederselo, o no?).
Il programma di allenamenti prevedeva sedute atletiche al mattino e lavoro tecnico-tattico al pomeriggio. Al mattino si correva all’interno della boscaglia affrontando i famigerati 1000 e 1500 metri per diverse serie. Nel pomeriggio finalmente si vedeva il pallone e si cominciava a porre le basi per dare una fisionomia alla squadra. Il ricordo più divertente dei miei primi giorni di ritiro è legato a un episodio: stavamo facendo gli addominali, mister Busetta si avvicina e mi fa: «Robè acchiana». Lo guardo e cerco di capire cosa mi sta chiedendo; eseguo quindi l’esercizio più lentamente e lui «Robee acchiana». Io procedo ancora più lento, lui però alza la voce: «Robeee acchiana». Io: «Cazzo mister, più piano di così sono fermo!!». Mi guarda, scoppia a ridere, mi da un calcio sulla schiena e scandendo lettera per lettera mi dice: «Minghia Robè…. A C C H I A N A vuol dire S A L I, P I Ù S U, che spacchiu capisti». «A posto semu - rimugino tra me e me - qua per guadagnarmi il posto in squadra mi toccherà prima imparare una nuova lingua» (qualche parola però cominciavo già a masticarla).
Mister Busetta è un grande. Nonostante l’atteggiamento da sergente di ferro è una persona dotata di smisurata umanità. Non solo è il mister del Catania ma anche un grande tifoso della squadra rossazzurra. Tra me e lui c’è stato subito feeling e il giorno in cui la società ha deciso per il suo avvicendamento ho sofferto molto. Calcisticamente parlando non è una cosa strana l’esonero di un allenatore. Li chiamano imprevisti del mestiere. Può capitare che una società prenda tale decisione per dare una scossa all’ambiente, per lanciare un segnale alla squadra richiamando i giocatori a riflettere sulle proprie responsabilità. Altre volte può essere che i vertici societari si rendono conto che c’è incompatibilità tra il direttore (mister) e l’orchestra (calciatori.) Come calciatore ho sempre vissuto l’esonero di un mio allenatore come una sconfitta personale. Quello di Busetta, all’epoca, mi creò un forte turbamento; le mie prestazioni cominciavano ad essere soddisfacenti, il mister, la società e i tifosi dimostravano di aver fiducia in me. Purtroppo giocammo in trasferta a Frosinone e perdemmo 3-1. Io ero fuori per squalifica ma mi sono sentito responsabile come i compagni che avevano giocato, sia della sconfitta che delle conseguenze inevitabili che quella disfatta in terra laziale generò. Ora avrei dovuto ricominciare tutto daccapo con l’arrivo di un nuovo tecnico. L’ultima volta che ho parlato con Angelo Busetta è stato per telefono quando allenava la Sambenedettese, parecchi anni fa. Provo una grande gratitudine nei suoi confronti.

Dopo la prima settimana di ritiro massacrante ci aspetta finalmente la prima partita amichevole contro una squadra di dilettanti calabra. Si gioca di domenica pomeriggio, ma al mattino c’è una seduta tattica.
Dopo aver fatto colazione esco dall’albergo per affrontare i pochi metri che mi separano dagli spogliatoi. Vedo arrivare qualche macchina carica di ragazzi. «Ma questi - penso - come hanno fatto a sbagliare strada e arrivare fin quassù?». Nel frattempo negli spogliatoi tra una battuta e l’altra ci prepariamo ad affrontare l’allenamento. Quando usciamo ci saranno state almeno una cinquantina di persone ai bordi del campo. Sono i nostri tifosi che si sono sciroppati tutta quella strada per venir a vedere la prima uscita della loro squadra, tra l’altro per una semplice amichevole.
Da non crederci!!!
La partita è fissata per il tardo pomeriggio.
Dopo pranzo, noi giocatori andiamo a riposare. L’albergo aveva un grande terrazzone ai piani superiori e, se ti affacciavi, la vista era impagabile. Si poteva vedere il mare e la rocca di Scilla a ridosso della spiaggia. Io dopo pranzo ci andavo a fumare una sigaretta e mi soffermavo a guardare il panorama. Quel giorno si sentiva un gran brusio di sotto e c’erano anche alcuni miei compagni di squadra. Mi affaccio e guardo di sotto…Non ci posso credere: ci saranno state almeno cinquecento persone, ma gli unici colori che si vedevano erano il rosso e l’azzurro. Fu una sensazione indescrivibile nell’anima. Quei matti si erano fatti tutti quei chilometri per una “stupida” partita amichevole. Quando si dice amore!
Non ricordo il risultato della partita. Però l’emozione che provai quel giorno me la ricorderò per sempre. Il giorno seguente si tira il fiato: ci viene concesso un giorno libero. Si deve rientrare in albergo per le sei del pomeriggio in punto. Insieme a Fimiani, Cicchetti e Faieta decidiamo di scendere a Scilla per goderci una giornata di mare. Appena arrivati ci fermiamo in un bar a fare colazione. Fimiani e il Cicco prendono un bicchiere di latte di mandorla. Decido di provarlo anch’io: troppo dolce non mi piace. Raggiungiamo la spiaggia di breccino e ci tuffiamo subito in mare. L’acqua è cristallina e limpida. Proprio a ridosso della riva si erge una fortezza, quella che vedo dal balcone dell’albergo. Vista da vicino è ancora più bella. All’ora di pranzo decidiamo di andare in un bellissimo ristorante sul lungomare. Ordiniamo menu di pesce per tutti. Credo che in questi momenti si crea quell’alchimia magica che permette a un gruppo di calciatori di diventare una squadra; accade quando non condividi soltanto le ore passate sul campo ma provi piacere a star insieme anche al di fuori del rettangolo di gioco. Ormai nel calcio tutti o quasi gli allenatori sono preparati, i giocatori bene o male conoscono i movimenti corretti, quindi la differenza oltre alle qualità tecniche è data dalla capacità o meno di un gruppo di condividere lo stesso obbiettivo andando oltre quelle che possono essere le aspettative personali.

A tal proposito (non me ne vogliano gli altri miei compagni) ricordo in particolare Patrizio Fimiani e Alessandro Cicchetti. Er Fimio è di un paese in provincia di Viterbo, mi pare lo stesso di Angelo Peruzzi, er Cicco invece è romano de Roma. Entrambi li avevo già affrontati da avversari anni addietro con le rispettive squadre Primavera. Ragazzi simpaticissimi, parlavano spesso in romanesco: ho subito legato con loro. Abitavano a Santa Tecla ma quasi ogni mattina venivano all’Eden bar a fare colazione. Non ci siamo mai dati appuntamento ma immancabilmente ci trovavamo sempre seduti al tavolino a passare buona parte della mattinata. Si parlava di tutto, dalle vicende calcistiche agli apprezzamenti alle ragazze che venivano a fare colazione. Insieme a noi si unì poi mister Mei quando approdò sulla panchina rossazzurra. Mei è il mio mister per antonomasia, il migliore che ho avuto, una persona speciale ma di lui voglio parlarne più avanti.
Gli episodi più divertenti che hanno coinvolto il sottoscritto, il Fimio e il Cicco sono tantissimi. Ne ricordo tre in particolare. Un giorno eravamo sull’isola Lachea a fare i tuffi dagli scogli. Ad un certo punto Fimiani vede una ragazza che prendeva il sole sugli scogli seminascosta. Col suo grande bon ton le grida: «Ma questa sirena come si chiama ?» Fa immediatamente capolino una testa, quella del suo ragazzo, che di rimando strilla: «Questa sirena non si chiama».
Una sera invece organizzammo una cena a casa di Fimiani. Lui e il Cicco avevano deciso di preparare gli spaghetti alla carbonara e io dovevo provvedere alle bevande. Entrano in una macelleria e chiedono la ventresca. Il macellaio gli propone la pancetta e loro si mettono a disquisire per più di mezz’ora sul fatto che la vera carbonara si fa solo con la ventresca. Alla fine il povero negoziante ci sbatte fuori esasperato. L’ultimo episodio da incorniciare vissuto con loro è legato a un viaggio aereo Catania-Roma. A quel tempo sugli aerei non c’erano le restrizioni che ci sono adesso. Era il periodo del passaggio della cometa di Hale-Bopp. La hostess annuncia che chi fosse interessato ad avvistare lo spettacolare fenomeno può accedere alla cabina di pilotaggio. Insieme ad altri passeggeri curiosi ci mettiamo in fila. Giunto il nostro turno il pilota ci indica dove guardare e Patrizio gli fa: «Embè è tutta lì la cometa?» E il pilota, di scatto: «E che ce volevi pure i tre re Magi?» Grande Fimio! Ho saputo che tempo fa ha subito un grave incidente. Spero di cuore che possa riprendersi. Con Cicco il rapporto è ancora più stretto. Entrambi come giocatori abbiamo un carattere emotivo. Questo tradotto sul campo vuol dire essere calciatori che hanno dentro una forte componente agonistica. Inoltre ogni tanto ci si chiude la vena e in qualche modo dobbiamo sfogarci. Ricordo che nel tunnel e lungo le scale del Massimino (all’epoca Cibali) facemmo a botte coi giocatori dell’Atletico, (gli aribattuti), sia dopo la partita di andata che quella di ritorno di coppa Italia. Ci siamo fatti valere anche in qualche altra trasferta quando i conti non ci tornavano. Ci guardavamo in faccia, serravamo i denti e decidevamo di partire. Il segnale che era giunto quel momento era la frase: «Ci togliamo l’orologio?» Alessandro è rimasto legato alla Sicilia. Vive ancora lì; quando verrò a Catania spero di incontrarlo e ridere ancora dei vecchi tempi.

CONTINUA...

ROBERTO RICCA
Nato a Novara il 24 gennaio 1973
Difensore rossazzurro nelle stagioni 1996-97 e 1997-98 in Serie C2, per un totale di 62 presenze e 4 reti.