#70CATANIA - Le pagine rossazzurre di Roberto Ricca: settima puntata

Roberto Ricca, da calciatore a scrittore

Roberto Ricca, da calciatore a scrittore 

Settimo ed ultimo appuntamento con i racconti catanesi di Roberto Ricca, difensore rossazzurro nel biennio 1996-1998

Ciao Ale,
ogni giorno la vita alterna istanti felici a momenti tristi e duri. Di solito, tutti noi amiamo ricordare quelli felici, in realtà sono quelli difficili che ci fanno crescere e capire la realtà. L’ultima volta che ci siamo scritti pensavamo di chiudere l’album dei ricordi rossazzurri con i “maledetti” ma splendidi play-off con la Turris (almeno per quella che fu la cornice di pubblico e colori del Cibali). Ci ho riflettuto e sono giunto alla conclusione che sarebbe stato un finale struggente ma scontato. Da grande scrittore quale ti reputo, concorderai sul fatto che il calcio è una parafrasi della vita. Ebbene, preferisco chiudere queste pagine con le dure rievocazioni degli errori che ho commesso, quelli che col senno di poi ti fanno capire perché non è stato raggiunto l’obiettivo prefissato.


Stagione 1997/98
Il giorno in cui si dovevano discutere le comproprietà prima di andare alle buste, salirono a Milano l’ingegner Pino Inzalaco e il segretario Arturo Barbagallo. Una volta riscattato dal club etneo, avrei apposto la firma sul contratto per altre due stagioni: questi erano gli accordi. Andai a Linate a prendere i due dirigenti e insieme ci recammo nell’albergo del centro milanese dove si intratteneva quello che ho sempre chiamato il mercato del bestiame. Io non avevo un agente che mi rappresentasse e la trattativa la discussi personalmente; la proprietà non era favorevole ad allargare i cordoni della borsa e fu dura riuscire ad ottenere l’adeguamento dell’ingaggio. Di contro, a Catania gli emolumenti mi son sempre stati pagati senza un giorno di ritardo, cosa assai rara nel mondo del calcio e del lavoro.

Giunti in albergo i dirigenti della Juve mi sottoposero la loro offerta: firmare un rinnovo e trasferirmi alla Battipagliese (che la stagione precedente aveva vinto il girone). I campani mi avevano offerto un contratto triennale a salire e la base era superiore rispetto a quello che avrei guadagnato in Sicilia. La situazione creatasi destabilizza, uno per uno, tutti i miei pensieri; nella hall dell’albergo c’è una gran confusione, ne approfitto per uscire di fuori a fumare una sigaretta. Fuori la calura è opprimente; m’infilo in un bar, compro una bottiglietta d’acqua e provo a metter ordine alle idee. Ero partito da casa con l’intenzione di legarmi al Catania e svincolarmi da quella Vecchia Signora che mi aveva prospettato il grande calcio. Inizialmente la Juventus sembrava credere in me, poi però in un batter d’occhio se n’era infischiata. Ora grazie alla buona stagione giocata in Sicilia, di colpo sembrava di nuovo interessarsi a me. Mi si offrivano un ottimo trattamento economico e la prospettiva di rimanere legato ai bianconeri. D’altra parte con i dirigenti etnei avevamo già stabilito tutto e, anche se nel calcio come nella vita si può ribaltare qualsiasi cosa in un batter d’ali, ritengo la parola data e una stretta di mano equivalenti a una firma. Decisi di parlarne con una persona di cui mi fidavo a occhi chiusi, uno che era stato come un fratello maggiore. Chiamai Pasquale Marino che aveva concluso la sua esperienza a Catania per andare a Milazzo nelle vesti di giocatore-allenatore e che era stato anche alla Battipagliese. Pasquale mi mise davanti agli occhi i vantaggi di giocare in C1, che all’epoca rappresentava un torneo di gran lunga superiore alla C2, mi parlò della società campana ma mi disse di valutare le cose con molta attenzione. Ragionai sull’opportunità di giocare in serie C1 e sul fatto che tre anni di contratto a cifre interessanti non erano pochi. Nondimeno pensavo ad Acitrezza, ai suoi faraglioni, all’isola Lachea dove era ormai un’abitudine quotidiana tuffarmi dai suoi scogli. Ripensavo al Cibali vestito di rossazzurro in ogni suo settore in occasione della partita d’andata dei play-off con la Turris. Ponderavo su quanto forte mi batteva il cuore ogni volta che facevo capolino dalla scalinata del sottopassaggio. Vedevo entrambe le curve pronte a suonare la carica, mi tornavano in mente tutte le volte in cui ho alzato lo sguardo oltre la Nord per vedere la cima dell’Etna stagliarsi sopra la curva. Pensavo a quella sensazione di onnipotenza che provavo ogni volta che partivo lungo la fascia sinistra. Davanti agli occhi avevo i tantissimi tifosi che m’incitavano a non mollar d’un centimetro; meditavo sull’unico gol che avevo segnato in casa con l’Albanova seguito da un infinito scoppio di petardi. Soprattutto rimuginavo sul fatto che ogni volta che infilavo un indumento da gioco con impresso sul cuore quell’elefantino con la proboscide alzata verso il cielo (che per un catanese significa tutto), mi sentivo importante e fiero. Mentre tiro un’ultima boccata di nicotina dalla sigaretta decido che rispetterò la parola data all’ingegner Inzalaco.

Lo spettacolo dello stadio Cibali 



Con un giorno d’anticipo rispetto alla data prefissata, raggiungo il ritiro di Melia di Scilla. Sta per cominciare la mia seconda stagione all’ombra del vulcano più alto d’Europa. La voglia di cominciare è tanta: quest’anno siamo i candidati numero uno per la promozione diretta. Purtroppo se ne sono andati tre pezzi da novanta, autentici cacciatori di gol come Tiziano D’Isidoro, Ciccio Pannitteri e Orazio Russo ma la speranza è che la società abbia operato bene per rimpiazzarli al meglio. Purtroppo fin dai primi giorni di ritiro si intuisce che sarà una stagione maledetta. Dopo appena due giorni il crociato di Alessandro Cicchetti fa crac. È una perdita gravissima non solo perché perdiamo un mastino della difesa, ma anche perché il “Cicco” è uomo spogliatoio, uno degli ultimi a mollare e le conseguenze psicologiche della sua assenza si faranno sentire.
Alla prima amichevole con una squadra dilettantistica della zona ho la certezza che sarà un’annata travagliata. Mentre sto correndo palla al piede lungo la fascia sinistra un avversario entra fuori tempo in scivolata centrando in pieno la mia caviglia destra. Passano dieci secondi, il tempo di rotolare a terra, e la caviglia è già grossa più di un’anguria. Per mia fortuna il professor Luigi Russo era salito in ritiro per seguire la prima amichevole stagionale. Lui e il massaggiatore Turi Barbagallo mi trasportano al presidio ospedaliero di Scilla dove vengo sottoposto a una radiografia. Non si tratta di frattura, ma di una seria distorsione con stiramento del legamento unito all’inevitabile ematoma: la prognosi è di venticinque giorni di stop. Mi tocca saltare la preparazione e l’inizio della stagione; per uno con le mie caratteristiche fisiche significa pagare un dazio enorme. Decidiamo comunque che rimarrò in Calabria e per qualche giorno camminerò con le stampelle; il professor Russo ordina un tutore da utilizzare per potermi sottoporre al lavoro fisico senza rischiare di compromettere l'articolazione. Non mi voglio arrendere all’evidenza dei fatti, così faccio di tutto per bruciare i tempi necessari per il recupero. Per evitare di sovraccaricare la caviglia, rinuncio a rientrare a Novara per i tre giorni di riposo che la società ha concesso al termine del ritiro. Durante la visita di controllo, mento al professor Russo dicendogli che sono pronto a rientrare nei ranghi: voglio essere presente al primo allenamento stagionale a Monte Po’.

L’abbraccio virtuale con i tifosi è una di quelle soddisfazioni che giustificano i sacrifici fatti per diventare un calciatore professionista. Quando arrivo davanti al cancello con la macchina c’è una folla numerosissima ad attenderci. Sono tanti i complimenti e le pacche di incitamento ma percepisco anche una certa rabbia e un pizzico d’insofferenza per come si è conclusa la stagione precedente. Ora però i tifosi pretendono la promozione in C1. Entriamo in campo per svolgere la seduta e commettiamo un piccolo ma imperdonabile errore: cominciamo subito la trafila dei giri di campo senza aver reso omaggio al pubblico presente. Tutto questo viene visto come un gesto irriguardoso e i tifosi ce lo fanno capire con grida e ammonimenti alla loro maniera. Inoltre non sono mai state digerite le frasi che mister Mei aveva rilasciato al fischio di chiusura della partita di andata dei play-off, parole strumentalizzate poi dalla stampa. Passata una decina di minuti la mia caviglia malandata si torce di nuovo. Non dico nulla per la vergogna ma stringo i denti, però corro male e cerco di limitare i danni provando a risparmiare sulle galoppate.

Purtroppo le cose non andarono per come erano state programmate. La squadra pareva indebolita rispetto alla stagione precedente e i risultati confermarono i forti dubbi sulla nostra capacità di primeggiare. Come sempre avviene in questi casi si optò per la sostituzione della guida tecnica. Mei venne esonerato poco prima di Natale e al suo posto venne ingaggiato Salvo Bianchetti, allenatore catanese che già aveva lavorato nella sua città. Ricordo come fosse ora ciò che avvenne il giorno della sua presentazione alla squadra. All’interno degli spogliatoi il mister ci spronava a credere nelle nostre qualità ed era convinto che potessimo risalire la china. Dall’esterno si percepiva uno strano brusio: quelle voci non erano certo d’incoraggiamento. Intanto Bianchetti ci spiegava che sapeva che eravamo su una polveriera ma, essendo catanese doc, niente e nessuno avrebbe condizionato le sue decisioni. Non fece in tempo a finire la frase che si spalancò la porta dello stanzone ed entrarono una trentina di persone con fare non proprio pacifico. Intimarono a noi giocatori di stare in silenzio e di darci una svegliata, quindi si rivolsero al mister con queste parole: «Ti na gghiri». Lo ricordo perfettamente perché quelle parole sono risuonate nelle mie orecchie più d’un milione di volte. Mister Bianchetti è impietrito, li guarda, volta loro le spalle e se ne va. A loro volta, i giustizieri prendono la porta e scompaiono pure loro.

Una formazione del Catania 1997-98, Roberto Ricca è il terzo da sx tra quelli in piedi 



Ora nello spogliatoio regna il silenzio. Per cinque minuti si sentono solo i nostri respiri, nessuno apre bocca, lo sguardo collettivo è rivolto verso il pavimento. Ad un certo punto, qualcuno (non ricordo chi) prende la parola «Ragazzi intanto chiamiamo la polizia che qua si fa dura anche solo a uscire dalla porta». Nel frattempo arriva Angelo Russo, uno sempre presente quando c’è da metterci la faccia: uno con le palle. La sua sola presenza pare tranquillizzarci, però stavolta è senza parole. Il suo sguardo è pieno di rabbia e incredulità. Credo che per un attimo abbia addirittura pensato di mollare tutto. Arrivarono pure il direttore sportivo Silvano Mecozzi e l’ingegner Pino Inzalaco. A differenza di altre proprietà, la famiglia Massimino non si è mai nascosta lasciando che fossero solo i giocatori a subire le contestazioni ma ha sempre cercato di tutelare e proteggere i propri tesserati. Inoltre da parte di tutti i membri della famiglia Massimino c’è sempre stata la disponibilità al confronto con tutti i tifosi. Io sono uno che ha sempre accettato le critiche, anche quelle pesanti e perfino le minacce; ritengo che come mi hanno sempre inorgoglito i complimenti e gli incitamenti quando gioco bene altrettanto devo prendermi quello che merito se gioco male. Però questa presa di posizione così dura di parte della tifoseria mi è incomprensibile. Criticare la squadra, l’allenatore, la società per la mancanza di risultati mi pare legittimo, pretendere di decidere chi deve guidare la squadra o i giocatori da acquistare mi sembra inconcepibile.

Il pomeriggio del giorno successivo arriva Franco Gagliardi che la stagione precedente ha allenato il Castrovillari. Il nuovo mister è uno che gioca con la difesa a quattro, io invece sia con Busetta che con Mei giocavo da esterno in un centrocampo a cinque, alternando qualche apparizione nella difesa a tre. I movimenti della difesa a quattro sono completamente diversi rispetto al modo di giocare con tre difensori e cinque centrocampisti. Io facevo della corsa e degli inserimenti il mio cavallo di battaglia, spesso a scapito della disciplina tattica; quando si gioca con quattro difensori invece, il rigore tattico è fondamentale. Nonostante tutto promisi la massima applicazione ad adattarmi alle richieste del nuovo tecnico. Giocammo la prima partita il 27 dicembre 1997 contro il Trapani. Per l’occasione venne schierata una formazione completamente snaturata rispetto alle caratteristiche di ogni singolo nostro giocatore. Addirittura come terzino sinistro fu schierato Lorenzo Intrieri che era fortissimo ma con maggiori spiccate attitudini offensive delle mie. Perdemmo 3-1. Durante il viaggio di ritorno, preoccupati non solo per le contestazioni che avremmo subito ma anche per la piega che stava prendendo il campionato, decidemmo che era il caso di confrontarci col mister ed esprimere le nostre perplessità. Gagliardi faceva l’analisi della gara disputata il mercoledì mattina. Il martedì pomeriggio svolgemmo la seduta nel silenzio più totale. Il mister non proferì parola ma ci guardava come se la colpa della sconfitta fosse esclusivamente nostra. Il giorno seguente siamo pronti per un chiarimento, ma l’allenatore anziché affrontare la disamina della gara col Trapani esordisce prendendo di mira mister Mei. In realtà Gianni Mei, dopo l’esonero, aveva solo detto che era convinto che avremmo raggiunto i play-off perché credeva in noi. Secondo Gagliardi, quelle dichiarazioni erano state fatte per destabilizzare l’ambiente, «Noi siamo una squadra scarsa, -ripeteva- sarà un autentico miracolo se io riuscirò a salvare il Catania dalla retrocessione».

Per quel che mi riguarda il vaso è colmo. Mentre Gagliardi sta continuando a spararci merda addosso alzo la mano come si faceva a scuola. Di fronte a me c’è capitan Del Giudice che con la testa mi fa cenno di no, giacché ha capito che sto per esplodere. Esordisco così: «Secondo me se c’è qualcuno che non capisce nulla di calcio non è certamente Mei. Come si permette inoltre lei di affossarci anziché darci gli stimoli per reagire, proprio lei che non ha ancora capito nemmeno i nostri ruoli in campo». Segue un silenzio assordante. Mi aspetto che qualche mio compagno venga in mio supporto, invece tutti stanno zitti. Gagliardi mi fulmina con lo sguardo e l’unica cosa che mi dice è: «Con te faremo poi i conti con la società». La discussione finisce e usciamo per fare allenamento. Ho appena fatto la cazzata più grossa i tutta la mia carriera, ho come la sensazione di essermi condannato a morte da solo. Esco per ultimo e me ne sto in fondo da solo per tutta la seduta atletica del mattino. Mi sento tradito dai miei compagni, quelli con cui fino a un’ora prima avevo condiviso le critiche sull’operato del nuovo condottiero. Non ricordo nemmeno se di questo episodio ne fossero venuti a conoscenza i dirigenti; però da allora mi sentii sempre più un corpo estraneo all’interno della squadra. Per un paio di partite non venni nemmeno convocato. La società non chiese mai un confronto col sottoscritto, evidentemente le era bastato sapere la versione del mister. Da parte mia pur mettendoci il solito impegno in allenamento non mi preoccupavo nemmeno se potessi o meno far parte della formazione. Ce l’avevo col mondo intero e mi comportavo in maniera quasi strafottente nei confronti di compagni, allenatore e direttore sportivo. Eppure la possibilità di riscattarmi me la offrì la gara esterna col Crotone che poi vinse il campionato. In quella occasione mancavano diversi difensori, chi per squalifica chi per infortunio. In settimana Gagliardi mi si avvicina e mi dice: «Secondo te, dopo quello che mi hai detto dovrei fidarmi a farti giocare?». Anziché rispondere in maniera diplomatica rincarai la dose: «Se ho qualcosa dentro lo dico direttamente al mio avversario, non mi nascondo. Fossi in lei mi guarderei le spalle da chi tace non da chi esprime i propri sentimenti». Anche in quell’occasione sbagliai tempi e modi. Avrei dovuto fare come si è soliti fare nell’ambiente: tacere, annuire e farmi i fatti miei. Tornando a quella gara, vengo schierato titolare e vinciamo la partita. Purtroppo io vengo espulso per fallo da ultimo uomo e l’allenatore mi accusa di complottare contro di lui. Per me è finita: non vedo l’ora che si concluda questa maledetta stagione e la tristezza per dover abbandonare Catania mi attanaglia. Ormai non frequento più nessun compagno fuori dal campo. Piuttosto che far colazione all’Eden bar, preferisco spostarmi in bar meno conosciuti lungo la scogliera nella consapevolezza che nessun mio compagno lo frequenti. Trascorro i momenti liberi chiuso in casa a giocare a Gran Turismo con la Play-Station.

Franco Gagliardi, tecnico rossazzurro nel 1997-98 



Eppure il direttore sportivo Mecozzi fa trapelare voci che io mi dia alla bella vita: è assolutamente falso. Silvano Mecozzi, marchigiano di Civitanova Marche, è soprannominato da me l’ispettore Callaghan per la vaga somiglianza con Clint Estwood. Il direttore indossa sempre un paio di Ray-Ban, parla continuamente al telefonino e non si separa mai dalla sua agenda. Un giorno a Monte Po’ prima dell’allenamento stavamo cazzeggiando calciando in porta dal limite dell’area. Mecozzi è seduto sul muretto proprio di fianco al palo ed è impegnato in una delle sue continue conversazioni telefoniche. Io sono vicino a Dino Di Julio, un caro amico con il quale ho giocato insieme pure ad Avezzano. «Dino,» gli grido d’un fiato «quanto mi dai se becco il direttore ?» «Non c’hai le palle per farlo» mi risponde. A quel punto prendo la mira e faccio partire un missile che centra Mecozzi in pieno volto. Volano gli occhiali, il telefonino e il direttore rimedia perfino un taglio sul naso medicato dal massaggiatore. Con grande faccia di tolla, mi avvicino per chiedergli scusa e asserisco di non averlo fatto apposta. Lui non si è accorto delle mie intenzioni ma dopo un attimo di smarrimento promette di farmela pagare. Stancamente arriva la penultima giornata di campionato col Trapani e, come al solito, sono in panchina. All’inizio del secondo tempo il mister mi fa scaldare. Nonostante il mio rendimento molto al di sotto di quello dell’anno precedente godo ancora un po’ di credito da parte di alcuni tifosi che ancora mi chiamano cavallo pazzo. Quando scocca il momento di esser sguinzagliato in campo, decido di giocar a modo mio e di non seguire le indicazioni dell’allenatore. Comincio con il fare qualche sgroppata sulla fascia e attacco in modo incessante, infischiandomene delle urla di Gagliardi (tanto attaccavamo sotto la Curva Sud e lui stava dalla parte opposta). Ad un certo punto Umberto Brutto si produce in una delle sue serpentine sulla destra. Io seguo l’azione e taglio verso il centro dell’area; Umberto mette la palla in mezzo, io piombo in scivolata e spedisco il pallone in rete. Il cuore mi esce dal petto, tutta la rabbia e la frustrazione per quello che doveva essere e non è stato mi esplodono in corpo mentre corro in direzione di Gagliardi.
È l’ultima volta che calco il terreno del Cibali con addosso la maglia del Catania.

La domenica successiva siamo a Chieti. Abbiamo fatto un pessimo campionato e non abbiamo nulla da chiedere alla classifica. Siamo al decimo posto, il nostro rendimento è squallido e non certo degno d’una piazza come Catania. Il Chieti invece è invischiato in zona play-out e ha assoluto bisogno di fare tre punti.
Ancora oggi non so per quale motivo Gagliardi abbia premiato il mio comportamento schierandomi titolare. A dir la verità un’idea me la sono fatta ma non posso azzardare di esprimerla. Arrivati allo stadio, i nostri avversari cominciano coi soliti piagnistei su quanto a noi non serva “giocarci” la partita mentre per loro tre punti sono indispensabili per sperare di mantener la categoria.

Nonostante il pessimo campionato, una frangia di ultras ci ha seguito fino in Abruzzo. Non fosse altro per un dovere morale nei confronti dei sacrifici fatti dai tifosi, abbiamo deciso che la partita ce la giocheremo. Ricordo che nel primo tempo andai vicino al gol colpendo un palo su calcio di punizione e in un altro paio di circostanze (di questo match c’è perfino un video su You-tube).

Nel secondo tempo venni sostituito e la partita finì zero a zero; nel sottopassaggio infine ci toccò difenderci con mani e piedi dagli attacchi di quelli del Chieti. Non avevano digerito il fatto che ci fossimo giocati la partita.




Caro Alessandro probabilmente ti domanderai il motivo per cui ho voluto raccontarti questa mia compilation di errori, perché di sbagli (ne sono il primo ad esserne consapevole) si tratta.
Perché i tifosi spesso non sanno o non immaginano che per vincere un campionato è necessario che tutte le componenti (società-allenatore-squadra) facciano il loro dovere. La responsabilità più importante è della società, a cui spetta il compito di scegliere l’allenatore e i giocatori adatti. Ai dirigenti inoltre spetta il compito di vigilare su quelli che sono i rapporti squadra-quadri tecnici. Per fare centro non basta solo individuare il mister e prendere dei giocatori. La società deve garantire la necessaria tranquillità a tutto l’organico e far in modo che i contratti firmati vengano rispettati nei giusti termini di pagamento, intervenendo se lo spogliatoio sfugge di mano all’allenatore.
La famiglia Massimino ha fatto tesoro di quelli che sono stati gli errori di quella stagione; nella stagione 1998-’99 ha allestito una formazione più competitiva e l’ha affidata a un uomo di grande esperienza. Così facendo ha centrato l’obbiettivo di vincere il campionato.
Io a distanza di anni, ho giocato in altre squadre, ho avuto anche delle soddisfazioni personali come aver segnato 9 reti in una stagione nella Maceratese. Ma dentro di me conserverò sempre ogni attimo, ogni respiro, ogni momento di quei due intensissimi anni vissuti nella città dell’elefante e sarò per sempre un tifoso solo del Catania.
Purtroppo come si evince da ciò che ho scritto non sono capace di perdonare, vorrei ma non ci riesco, fa parte del mio carattere. Non ho mai dimenticato gli affronti subiti da Gagliardi e Mecozzi e mai perdonerò chi ha fatto del male al Liotru. In questi giorni sui social girano sondaggi sul fatto che c’è qualcuno che bisognerebbe perdonare. Non ho espresso la mia opinione ma immagino sai già come la penso.
Un caro abbraccio Roby.