Milano, 23 Giugno 2015

 

Il racconto di Carletto Galati, tratto dall'Antologia di racconti sul Catania Calcio.

Milano, 23 giugno 2015
di CARLO GALATI*

Il telefono s’illumina: sono le 06.53 del mattino. La sveglia sarebbe suonata di lì a breve. È una calda mattinata milanese di fine giugno, una di quelle mattine in cui il cielo è bianco per l’umidità. Una fastidiosissima cappa che non ti permette di respirare, già dall’alba fin da subito. Questa sensazione la senti sempre, durante tutto il giorno. Ti si appiccica addosso, costantemente e in affanno, ti toglie ogni respiro. Cerchi di sopravvivere accendendo il condizionatore ma la scelta è tra il mal di gola e l’oppressione della cappa.
Lo smartphone s’illumina una seconda volta, sono passati solo due minuti. La sveglia sarebbe suonata cinque minuti dopo, decido di alzarmi dal letto e dar il via alla solita routine quotidiana. Traffico, lavoro, pranzo, di nuovo lavoro, palestra, cena e a dormire. Questo il ritmo, forsennato che si deve tenere in una città che lavora, produce e fattura, come piace dire ai business man meneghini.
Guardo finalmente il cellulare, con un occhio semiaperto e l’altro totalmente chiuso; distrattamente, lascio andare sul fuoco la moka. L’occhio va su un gruppo WhatsApp di amici e colleghi giornalisti, uno di quei gruppi che apparentemente serve a poco o nulla ma che invece a noi, emigranti del nuovo millennio, fa mantenere vivi e costanti i rapporti di amicizia con chi a Catania è rimasto, amicizie di una vita che si mantengono vive nella quotidianità.
A scrivere è Antonello Salerno, un amico, un collega giornalista che vive a Roma e rilancia un’Ansa delle 06.40. «Arrestati sette dirigenti del Catania con l’accusa di aver comprato alcune partite del campionato di Serie B ed evitare la retrocessione».
Bon. Arriva il primo schiaffo.
Mi sveglio definitivamente dal torpore mattutino e comincio a verificare la notizia, cerco altre fonti. Non scorgo nessun segno sulle varie testate e comincio a pensare: «Sarà uno scherzo o magari l’Ansa avrà sbagliato. Si riferirà ai dirigenti comunali o ad una controllata statale. Una cosa ugualmente grave ma paradossalmente più tranquillizzante. Sarà sicuramente così».
Non faccio in tempo a finire di formulare questo pensiero che sul telefonino piombano altri messaggi. Cominciano a chiamarmi da Catania.
«Carlo, è successo davvero: siamo morti»
«L’opera si è conclusa»
«Chi può mettere la notizia?»
«Ci penso io»
Capisco che è tutto vero. Iniziano ad arrivare le prime notizie, giungono anche le immagini. È coinvolto Nino Pulvirenti, lo stesso presidente che, fino alla sera prima, in diretta su Sky, con Gianluca Di Marzio parlava di rilancio. A Catania c’era già Pasquale Marino, lo avrebbero presentato di lì a poche ore. Si sarebbe ricostituita quell’asse Pulvirenti-Marino, che insieme a Lo Monaco, aveva fatto vivere momenti magici a tutta la città, partendo dalla stagione della promozione in A.
Finisco di aggiornare l’home page di calciocatania.com, mi preparo ad uscire.
Già, uscire. Sono catanese, vivo a Milano; la mia bolla casalinga fatta di extraterritorialità etnea non può proteggermi. Non sono un indigeno tra gli indigeni. Sono un indigeno tra i cowboy, sono in terra straniera.
Quella mattina essere catanesi e tifosi del Catania significava essere corresponsabili all’occhio dell’opinione pubblica, di uno scandalo che minava la credibilità di un calcio italiano, già messo male e pieno di problemi. Inevitabile fu il rimbombo della stampa estera alla notizia, inevitabile che Catania e il Catania fossero associati al male.
«Dal caso “Catania” allo scandalo “Catania”: il cerchio si chiude». Così mi ha scritto un amico fraterno, innamorato dei colori rossazzurri e questa è la reale percezione che ci assiste nelle prime ore del mattino. Scrivo una sorta di primo commento: «Se è vero che il Catania ha acquistato, qualcuno avrà pur venduto». Cercavo di tirarmi su il morale, di immaginare che, seppure nella merda, insieme a noi ci fossero anche gli altri.
La mia agenda era particolarmente impegnata: 8:30 appuntamento dal gommista. Sarei arrivato tardi in ufficio, sapevo che mi aspettavano, unico catanese in un ambiente di lavoro molto eterogeneo, in cui ero il solo portabandiera rossazzurro. Non avrei mai voluto posticipare il mio ingresso a lavoro, non avrei mai voluto dar adito a qualcuno di pensare che, davanti ad una situazione del genere fossi scappato, evitassi il confronto.
Eppure avevo quest’appuntamento e andai. Una volta arrivato in officina, come in quasi tutte le officine d’Italia, oltre alla certezza dei calendari di avvenenti signorine, che rimpinguano il morale dei lavoratori e degli astanti, l’altra certezza era di trovare una radio accesa. Quel giorno, quando desideravo che tutto fosse dimenticato e passasse sottotraccia, quando desideravo l’oblio, proprio quel giorno la radio in officina era sintonizzata su “Radio Sportiva” e l’argomento era lo scandalo del Catania e l’arresto del presidente Pulvirenti. Da qui i commenti, la corrida verbale. Li ricordo tutti, nitidi, chiari. Coltellate. Basti pensare che non vedessi l’ora di uscire, di andare via il prima possibile. «Fatemi pagare, voglio andarmene».
Arrivo in ufficio, mi accingo ad entrare. «Forza Carlo, mi ripeto, è un giorno come un altro. Pensa al tuo lavoro». Mi avvicino alla scrivania, vedo in lontananza degli oggetti sferici di colore arancione che non avevo visto prima. Mi approccio e realizzo: sono delle arance.
A giugno.
Non faccio in tempo a rifletterci che vedo materializzarsi in lontananza un collega palermitano. Mi sorride, so già che cosa vuole. Ha il dente avvelenato per quel famoso, «Non faremo la fine del Palermo». Mi sorride, «Ti ho portato le arance, mandale a Catania che magari oggi servono». Battuta scontata, ma che fa male. Non deve finire così, non può finire così.
A pranzo, ovunque ti giri, nel ridente complesso aziendale di MilanoFiori è tutto un parlare di Pulvirenti e del Catania. «Oh, hai sentito?», «Sì, è uno schifo, questi bastardi devono sparire». Perché bastardi?
Perché dovremmo sparire?
Che colpa abbiamo noi?
Che colpa ha il Catania?
Non puoi spiegarglielo, non servirebbe a nulla. Lo scandalo ha infettato anche le menti dei più lucidi, anche gli amici, i simpatizzanti del Catania, fanno un passo indietro. Nell’aria c’è questo clima di caccia alle streghe, di giustizia sommaria. Di Piazzale Loreto.
Mangio in silenzio, penso e rimugino. Mi giungono altre notizie, pubblicano le intercettazioni. «Stamu abbulannu», «Il treno delle 3 e 33 sta arrivando»; il tutto diventa una macchietta tragicomica, una rappresentazione farsesca del paradossale. Ricordo benissimo quella sensazione che non è di vergogna, non può esserlo, ma di senso del ridicolo. Vorrei evitare di sentire quella sensazione, vorrei pensare ad altro ma non ci riesco. Le notizie si rincorrono, il massacro è in atto, la macelleria mediatica in piena produzione: il vitello grasso da fare a pezzi è il Catania, è Nino Pulvirenti.
Di quel giorno, di quella mattina in particolar modo, ricordo nettamente una sola chiamata, fatta all’amico e collega Paolo Di Caro, che stava seguendo da vicino la vicenda: «Carletto non preoccuparti. Nella peggiore delle ipotesi torniamo a giocare con Catanzaro, Foggia, Lecce. Sai che belle trasferte? Sai che belle partite? Ricordati quegli anni…» .
Sappiamo entrambi che è una cazzata, sappiamo entrambi che ci stiamo appigliando al nulla, ma ci serve per andare avanti. Ci serve per capire che il bicchiere non è totalmente vuoto, che può esserci un aspetto positivo anche nella tragedia sportiva più grande, nel dileggio generale.
Torno a casa, accendo la tv, voglio sentire la viva voce e ascoltare bene Pulvirenti, Delli Carri e tutti i coinvolti.
Mi serve. Mi serve a mettere la parola fine, su quanto è successo, mi serve sentire con le mie orecchie.
Sento, è finita.
Nel frattempo, mi chiamano e mi scrivono da tutta Italia. Un amico, un ex compagno di squadra ai tempi dell’Amatori Catania, da Roma mi scrive: «Che ha combinato il tuo presidente? Perché ha voluto rovinare questa favola?».. Non lo so. Non riesco a trovare risposte a queste domande. Una giornata dai mille dubbi, un giorno dalle mille domande. Rimbombano nella testa e non trovano una risposta. Tanto vale andare a dormire, spegnere il cellulare ed evitare che si accenda, disturbando il mio sonno. Domani ci penserà la mia sveglia a farlo.

* Carlo Galati nasce all’ospedale Vittorio Emanuele, da bambino respira a pieni polmoni la catanesità nella centralissima via Androne e rimane folgorato da tutto ciò che è Catania. Laureato in direzione aziendale, dopo un corso di specializzazione a Londra, vive da sei anni a Milano. Giornalista, direttore responsabile del sito calciocatania.com è membro dell’”Association International de la Presse Sportive”. Grande appassionato di rugby, è indissolubilmente legato ai colori dell’Amatori Catania e devoto a Sant’Agata: sacro e profano, come ogni catanese che si rispetti.