L'autostrada della distanza

 

180 km separano due città destinate a non capirsi. Ben oltre il derby. Editoriale a cura di Luigi Pulvirenti

Domenica c'è il Derby di Sicilia, e tutto il resto passa in secondo piano. Da sempre. Da qando il palcoscenico non era quello della serie A e in palio non c'era la possibilità, per il Catania, di spedire all'inferno della B i cugini. Quando i protagonisti si chiamavano Giancarlo Marini e Beppe Scienza, da un lato, Lorenzo Biffi e Gaetano D'Este, dall'altro, e in palio c'era la sopravvivenza in serie C.

Fiumi di inchiostro che vanno a sfociare in oceani di luoghi comuni, sono stati versati, per il Derby. Che non è solo una partita, si è detto e scritto, ma il confronto tra due identità cittadine diverse che più non sarebbe possibile. Elefante contro aquila, cartocciata contro sfincione, sangeli contro pane con la meusa. Arancino o arancina? E poi corso Italia contro via Libertà, il barocco del centro storico etneo contro la magnificenza dei palazzi nobiliari di via Maqueda, il nero che fa scuro della lava contro il fronte mare del foro Italico, la movida catanese da città aperta contro il circuito delle feste private. E poi, salendo ancora, la scena rock contro quella jazz, Denovo, Consoli, Battiato, Uzeda contro…beh, qui non c'è partita. Brancati, Bonaviri, Verga, De Roberto, Buttafuoco contro Tomasi di Lampedusa, Elvira Sellerio, e ancora su, fin dove non si dovrebbe osare: sant'Agata o santa Rosalia?

Su una cosa, non c'è confronto: i palazzi del potere, simbolo della Palermo che era, che è, che sarà. Palazzo d'Orleans, Palazzo dei Normanni, e tutti i palazzi sede degli assessorati regionali. La Capitale della Sicilia che rivendica (giustamente) il titolo oltre il fatto formale di essere capoluogo della regione, per quella storia che parte da Federico II e si snoda attraverso i secoli fino ad approdare, attraverso le diverse dominazioni che si sono succedute, ai tempi della Repubblica. Un potere diverso e per certi versi nuovo: quello della politica. E della burocrazia regionale.

Mamma Regione che a tutto pensava, a tutto provvedeva, che tutto finanziava; che tutto accentrava, tutto soffocava, a tutto si opponeva, tutto ritardava, lasciava che tutto si perdesse nei meandri di una burocrazia regionale che si considerava (e si considera, tutt'ora) il vero governo della Regione, che quelli politici hanno una data di inizio ed una di scadenza. La burocrazia no: immutabile. E palermitana. Al punto che i palermitani considerano la Regione una cosa loro. I romani, conquistatori del mondo, quando mappavano le loro conquiste, sotto la Mauritania, confine meridionale dell'Impero, scrivevano "Hic sunt leones". La civiltà finiva con loro. Dopo, solo i leoni. Così, per molti palermitani, dopo il ponte sul fiume Oreto, hic sunt leones.

Sarà stato anche questo ad aver creato, negli anni, la distanza tra i due centri. Perché se a occidente c'era una città che incarnava il potere e ne decideva modalità di esercizio, ad Oriente ce n'era un'altra la cui popolazione, non avendo la prospettiva del posto pubblico quasi certo, si rimboccava le mani. Si dava verso. Commerciava, costruiva case, si pavoneggiava dell'etichetta (fasulla?) di Milano del Sud, e guardava con sempre più diffidenza i cugini di Palermo, città nella quale bisognava recarsi, comunque, per avere le tanto sospirate carte bollate.

C'è stato un momento in cui si sono sentite vicine: gli anni della rabbia, quel '92 delle stragi di mafia, il '93 della crisi dei partiti, la primavera di Bianco e quella di Orlando, la rinascita nella cultura. Ma anche qui, divise: perché Palermo aveva il paracadute della Regione e del posto pubblico mentre Catania annaspava nella crisi dei Cavalieri del Lavoro, bollati come Cavalieri dell'Apocalisse da Giorgio Bocca, che lasciò sul campo migliaia di disoccupati. La storia giudiziaria ha seguito e seguirà il suo corso, ma il disastro sociale della caduta del settore edizilio passò quasi in secondo piano. Catania, pian piano, con difficoltà si rimboccò le maniche, risalendo la china grazie a quell'indole innata dei catanesi, campioni del lamento fine a se stesso ma capaci di scatti di orgoglio e colpi di genio impensabili quando di mezzo c'è la sopravvivenza. Non è un caso che Catania sia stata distrutta dalla natura, sette volte, e sempre ricostruita.
Vent'anni dopo la storia si ripete. Viviamo una crisi, anche politica, a cui i palermitani hanno dato, come risposta, prima la restaurazione di Orlando a Palazzo delle Aquile e poi l'incoronazione di Rosario Crocetta ad erede dei Vicerè. La rivoluzione orlandiano-crocettiana sostenuta (anche), dalle masse dei precari che inseguivano il mito del posto fisso, e a cui Orlando e Crocetta hanno dovuto sbattere in faccia la realtà: non si può fare. E poco importa che in campagna elettorale andassero dicendo il contrario.

A Catania si vota tra poco. Vedremo come andrà. E comunque ci si comincerà a pensare, sul serio, dopo domenica. Il Catania migliore di sempre contro un Palermo che lotta per restare in A. Il calcio sarà pure la cosa più importante, tra le meno importanti, come sosteneva l'avvocato Agnelli, ma certi match sembrano essere stati sceneggiati proprio per assurgere a simbolo di una rivalità che conosce molteplici occasioni per confermarsi.

Nel rispetto, però. Quello non è mai venuto meno. Come si conviene tra chi è consapevole del proprio e dell'altrui posto nel mondo. Io lavoro a stretto contatto con i palermitani. E la mia esperienza è, più che buona, ottima.

Il mio ricordo del derby, proprio per questo, non è legato ad una partita. Ma a un funerale. Quello del Cavaliere Massimino, in cattedrale, marzo del 1996. A portare in spalla il feretro, vicini l'un l'altro, Ciccio Falange e Johnny Giordano, capo delle Brigate rosanero.
Domenica si gioca nello stadio che porta il suo nome. In campo e sugli spalti, onoratelo.
Poi, che vinca il migliore.

_________________________________________________
Articolo pubblicato per gentile concessione di blogsicilia.it